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Di Beppe del Colle, giugno 2004 |
Da mesi USA e Gran Bretagna cercano una "svolta", mentre emerge sempre di più l'errore di una guerra preventiva a un Paese che avrebbe dovuto possedere le armi di distruzione di massa…
Fa un certo effectto, in questi giorni, leggere contemporaneamente i giornali italiani e quelli esteri, europei o americani. In Italia, scandalo, indignazione e timori a Destra, a Sinistra e al Centro: in Parlamento - quasi tutti hanno scritto - il Centrosinistra con il voto sul ritiro dei nostri soldati dall'Iraq si è consegnato a Bertinotti e ha regalato in tal modo una comoda vittoria a Berlusconi; il quale, dopo la visita lampo a New York e Washington, da Kofi Annan e da Bush, aveva offerto alle Camere la visione idilliaca di una pace possibile e vicina, di una "svolta" strategica e decisiva, grazie alle Nazioni Unite (fino a poco tempo fa sbeffeggiate come inutili, e anzi corrotte).
All'estero, nessuna traccia di novità, nulla che non si sapesse già da settimane, se non da mesi: che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna stavano cercando una via d'uscita dalla tragedia irachena, lavorando alla proposta di una risoluzione da presentare lunedì 24 maggio al Consiglio di sicurezza; mentre proseguiva il lavoro diplomatico dell'inviato di Kofi Annan a Baghdad, Brahimi, per arrivare nel più breve tempo possibile alla formazione di un Governo iracheno autonomo in grado di assumere i poteri (tranne, sembra di capire, quello di condurre le operazioni militari e di sicurezza, che resterebbero di competenza della Coalizione almeno fino alle elezioni del prossimo dicembre).
Nel frattempo la faccenda si complicava per la realtà che emergeva dall'inferno iracheno. Il Sunday Times rivelava, domenica 23 maggio, che un rapporto segretissimo del Foreign Office britannico sulla situazione, e in particolare sulle conseguenze della strategia bellica americana, segnalava al premier Blair e a pochissimi ministri competenti "i segni di una migliore organizzazione dei ribelli e d'un bacino di sostegno popolare almeno tra i sunniti".
Per rispondere a questo, il Foreign Office dà al Governo presieduto da Tony Blair un'indicazione ben precisa: "Dobbiamo massimizzare la nostra influenza sulle decisioni militari americane, in modo da prevenire azioni degli Stati Uniti, sia al livello strategico sia operativo, che possano mettere in pericolo i nostri obiettivi".
Ma in America succedeva in un certo senso di peggio: il Washington Post sosteneva che il comandante delle operazioni in Iraq, il generale Sanchez, non solo sapeva da tempo delle torure nella prigione di Abu Ghraib e partecipava alle discussion interne in merito, ma addirittura vi aveva assistito.
Ed eccoci al cuore del problema: non Bertinotti, ma la guerra in Iraq. In Italia, una solitaria, tranquilla intervista televisiva di Fabio Fazio (Chetempochefa di sabato 22 maggio) ad Hans Blix, capo degli ispettori dell'Onu, sui presunti armamenti illeciti di Saddam Hussein serviti come pretesto per il conflitto, ribadiva per l'ennesima volta che quelle armi non c'erano, che la guerra era decisa da anni, che George W. Bush voleva completare l'opera lasciata a metà dal padre, dieci anni prima. Ma da noi, quello che contava e continuerà a contare, almeno fino alle elezioni del 12-13 giugno, era la "sbandata" di Prodi e dell'Ulivo.
Si può tranquillamente seguitare a pensare che la nostra presenza in Iraq non sia da interrompere in questo momento, mentre si stanno prendendo decisioni importanti all'Onu, senza per questo "consegnarsi" a Berlusconi anziché a Bertinotti. Ma tenendo presente che il buon samaritano che opera in Iraq è a sua volta sotto tiro, e non ha, per la natura stessa "di pace" del suo impegno, armi adeguate a difendersi. Come si è tristemente capito quindici giorni fa a Nassiriya.
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