Gli Stati Uniti Cominciano ad Ammettere di Essersi Impantanati |
Di Giuseppe Del Colle, ottobre 2004 |
Ormai è chiaro: l'occupazione militare del Paese arabo non aiuta a combattere il terrorismo. E ora una possibile soluzione è affidata alle "armi" della politica e della diplomazia.
È sempre più chiaro che la situazione in Iraq è destinata a rimanere quella che è da molte settimane, almeno fino a dopo le presidenziali americane di novembre: grave, con una gran parte del Paese fuori dal controllo della Coalizione, mentre infuria una guerriglia fatta anche di sequestri di persona, cui le forze armate degli Usa e dei loro alleati non rispondono, per ora, che con i bombardamenti aerei e le artiglierie pesanti a Falluja, Samarra e altrove.
Con questo non si dice che l'esito del voto per la Casa Bianca sarà di per sé decisivo. Chiunque vinca, Bush o Kerry, avrà di fronte gli stessi problemi di oggi. Soprattutto uno: quanto fidarsi dell'idea che prima o poi il Governo "autonomo" di Allawi riesca a "pacificare" l'Iraq. Ma il più difficile di tali problemi, per gli Stati Uniti e l'Occidente, e quindi in primo luogo per l'inquilino della Casa Bianca, sarà come sganciarsi da quel conflitto senza perdere la faccia, e anzi con la buona coscienza di aver contribuito a restituire libertà, ordine e benessere a quel popolo.
Negli ultimi giorni si è accesa fra gli uomini di Bush - in particolare il segretario alla Difesa Rumsfeld, il segretario di Stato Powell, il comandante in capo in Iraq, generale Abizaid - una discussione aperta sul tema, e Rumsfeld, uomo senza peli sulla lingua, è arrivato a domandarsi se non sia il caso che l'America ritiri il suo contingente anche senza che la pacificazione si sia conclusa, aggiungendo di non ritenere che le elezioni per l'Assemblea generale, previste per il gennaio del 2005, si possano tenere senza rischi in tutto il territorio. Nel frattempo, ogni cosa sembra affidata a scadenze politico-diplomatiche in cui gli Usa non sono l'unico protagonista.
Sabato 9 ottobre si vota in Afghanistan, e gli occidentali sperano che sui dieci milioni di elettori non influiscano troppo i "signori della guerra" e i talebani residui. Entro lo stesso mese di ottobre dovrebbe svolgersi la Conferenza internazionale chiesta dal premier iracheno, aperta ai membri del G8 (dunque Italia compresa), e che Powell vorrebbe far tenere in una capitale araba, Amman o il Cairo, "'per discutere come i Paesi vicini possano assistere l'Iraq e stabilizzare la regione".
È quanto sosteneva, fin dall'inizio della guerra, il fondatore di Sant'Egidio, Andrea Riccardi: i Paesi sono i più direttamente interessati a un equilibrio stabile e pacifico dell'aerea mediorientale, e ne sono anche i migliori conoscitori. Ed è quanto ha detto alla vigilia del suo viaggio a Roma il giovane re di Giordania in un'intervista al Corriere della Sera: "Dobbiamo aiutare questo Governo a riportare la stabilità perché, se fallisce, l'alternativa sarà ancora peggiore".
Ed è infine, quanto molti altri in Occidente ripetono da più di un anno: combattere il terrorismo, come è giusto e doveroso, non significa occupare militarmente un Paese (con gli esiti che finora si son visti), ma togliergli l'acqua in cui nuota, che esiste, anche se la sua voce è stata finora troppo flebile.
Altra vera speranza non rimane, almeno fino a quando, fra l'altro, non si scopriranno e non si interromperanno i flussi di rifornimento di armi e munizioni che evidentemente non conoscono frontiere, in una parte della Terra fin troppo piena di nazionalismi frustrati e fondamentalismi religiosi ai quali la moderna tecnologia occidentale offre, senza volerlo, senza poterlo impedire, la micidiale arma del terrorismo mediatico, con sgozzamenti cinicamente offerti, via Internet e Tv arabe, all'orrore (e alla paura) del mondo.
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