L'Utopia di Bush:
Il Dominio della Forza
 

By Beppe del Colle, from L'Italo Americano - febbraio 2003

Diamo per scontata la legittimità di tutte le opinioni suscitate dalla mamifestazione del 15 febbraio, così simile a quelle che si sono svolte in molte altre città, anche degli Usa: la stessa imponenza della partecipazione popolare - la Cnn ha calcolato 110 milioni di persone, 400,000 a New York - implica una grande varietà di idee, di valori, di princìpi.

Hanno dunque ragione tutti? I cinici e gli entusiasti? I critici e i consenzienti? I realisti che definiscono illusi gli idealisti, o gli idealisti che ne hanno abbastanza dei realisti? Una prima risposta a questi interrogativi verrà presto. Se la guerra all'Irak ci sarà. Se finirà in un batter d'occhio. Se avrà le conseguenze che temono i pacifisti "senza se e senza ma", o quelle che pronosticano i fiduciosi nel potere redentivo della democrazia trasferita manu military a un popolo che non l'ha mai conosciuta, circondato da altri popoli che non sanno che cosa sia, galleggianti su un mare di riserve di petrolio sul cui controllo hanno vegliato finora sàtrapi e monarchie, chiuse e gelose nei loro affari. Se con l'occupazione di Baghdad e la fine di Saddam Hussein sarà vinto anche il terrorismo.

Ma prima che la Soria ci risponda, è giusto che di tutte le opinioni di oggi si tenga conto, e quindi anche di quella che ha scarsa eco da noi: l'opinione degli uomini di cultura americani, molti dei quali sono contrari alla strategia dell'amministrazione del loro Paese, come è delineata nel documento del settembre del 2002 intitolato National security strategy of the United States of America. Un documento che il sociologo Robert N. Bellah, docente emerito a Berkeley, ha definito sulla rivista Commonwealth, in un testo tradotto in Italia dalla rivista Il Regno, come la descrizione del "nuovo impero", così sintetizzandolo: "L'America colpirà ogni Stato e ogni gruppo che considera pericoloso, dovunque e comunque lo ritenga necessario, indipendentemente dall'esistenza o meno di una provocazione. Solo gli Stati Uniti avranno grandi riserve di armi di distruzione di massa, apparentemente perché solo di noi ci si può fidare riguardo al loro giusto uso."

Bellah ricorda che il mondo può cambiare, che oggi gli Usa sono l'unica superpotenza, ma potrebbero sorgerne altre, fra non molto (la Cina, l'India), e si domanda se non sia molto meglio, per una paese come l'America, che non ha mai nutrito vocazioni imperiali, non sabotare i trattati internazionali ma "collegare tutti gli Stati, grandi e piccoli, mediante accordi che limitano le armi e richiedono arbitrati, invece di ritenere che potremo sempre dominare il mondo con la forza". Utopia? Ma non è utopico anche il sogno di Bush?

Su Esprit leggiamo il saggio di Stanley Hoffmann, docente di Storia ad Harvard, che parla del nuovo "eccezionalismo americano", così lontano da quello dei Padri fondatori ("non leghiamoci a nessuna alleanza") o del presidente Wilson prima della Grande Guerra: "Siamo troppo fieri per batterci". Hoffmann elenca quattro gruppi di fondamentalisti "manichei", sostenitori della superiorità morale dell'America nella lotta fra il Bene e il Male e della tesi che "il diritto internazionale e le organizzazioni multilaterali devono farsi da parte quando si trovano sulla strada della potenza americana".

Dimenticando quante volte la politica di Washington ha protetto e aiutato dittatori di ogni genere (Saddam compreso) e soprattutto che "la dottrina dell'azione preventiva è una garanzia di caos se cominciano a rivendicarla anche altri Paesi". Questo si può dire e si dice in America, senza essere antiamericani.


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