Guerra
Sulle Macerie di Baghdad

Di Fulvio Scaglione, estratto dall'Italo Americano, 17 aprile 2003

Dopo la presa, la capitale, città simbolo della guerra, diventerà l'emblema della ricostruzione. Perché qui si ritrovano tutti i problemi etnici, economici e culturali dell'Iraq. Liberato o vinto?

Fine. Forse non della guerra, per quanto si può chiamare "guerra" una serie di battaglie come quella del quartiere Daura, 2-3.000 morti iracheni e un caduto americano (fonte Wall Street Journal). Ma già le prime incursioni americane nella zona sud di Baghdad avevano segnato la fine dell'Iraq di Saddam Hussein, della resistenza organizzata delle sue truppe, di tutto ciò che non somigliava a ciò che oggi avviene: un gigantesco rastrellamento. L'effetto domino, peraltro, è stato immediato: circondata Baghdad, sono cadute Kerbala e Bassora e i peshmerga curdi hanno guadagnato chilometri arrivando dalle montagne del Nord.

Per questo, i marines e i fanti che si sono divisi il rischio e l'onore di metter per primi piede a Baghdad hanno fatto un doppio lavoro: quello dei soldati e quello dei politici, che come loro arrivano fin qui in sella ai carri armati.

Il primo a saperlo è anche il primo dei soldati Usa, il general Tommy Franks, che sarà il governatore militare dell'Iraq liberato. Penetrando nel quartiere Daura, e certo affaccendate dal non secondario compito di non farsi sparare addosso, le sue pattuglie avranno riferito che i margini sud del quartiere sono popolati da sciiti, che poco più avanti (stesso quartiere, ma rione Mikanik) sono molti i cristiani caldei (c'è il Collegio teologico, straordinario esempio di dialogo interconfessionale con studenti e professori anche mussulmani, il seminario maggiore…), in gran parte originari del Nord, che verso il centro si sbuca nei quartieri della borghesia sunnita.

Perché Baghdad non è solo la città del tiranno, ma anche una grande e complessa capitale con 5 milioni di abitanti, dispersa su decine di chilometri in ogni direzione. E l'Iraq non è l'Afghanistan, spesso preso a modello non si sa bene di che. Proprio le città saranno la chiave del domani: tra Baghdad, Bassora e Mosul si arriva a quasi 10 milioni di abitanti, sui 25 del paese. Luoghi di storia antica e di fresche memorie di relativo benessere.

Ancora nel 1990, prima della guera del Golfo ma dopo quella tra Iraq e Iran, il reddito medio pro capite degli iracheni era di 3.500 dollari l'anno. Vivevano di petrolio e commercio e importavano il 75 per cento delle derrate alimentari. E studiavano, anche: 10 università nel Paese, due a Baghdad. Non sono Harvard, ma hanno dato a migliaia di persone un'istruzione e l'orgoglio del "pezzo di carta".

L'Iraq, insomma, è un enorme serbatoio di piccola borghesia oppressa dalla dittatura e impoverita dalle sanzioni. Altro che i pastori e i coltivatori di papavero da oppio dell'Afghanistan. Gente, quella irachena, che sa come va il mondo e vuole farne parte. Sarà trattata da popolo liberato o da popolo vinto?

Il costo della pacificazione

Bush e Blair promettono pane e democrazia ma non riescono a mantenere le promesse: gli Usa hanno il tasso di disoccupazione al 5,8 per cento (357.000 senza lavoro in più a febbraio, 108.000 in marzo), un debito estero di 450 miliardi di dollari e l'economia ferma; la Gran Bretagna presenta un bilancio di previsione per il 2004 con un "buco" che, secondo le stime, sarà tra i 44 e i 51 miliardi di euro.

Bisognerà governarlo, questo Iraq del dopo Saddam, e tenerlo insieme. Toccherà all'esercito, appunto.

Secondo uno studio di James Quinlivan per il trimestrale dell'United States Army War College (la scuola di guerra dell'esercito Usa), per un'occupazione militare di stabilizzazione postguerra "tranquilla" occorrono dai due ai quattro militari per ogni mille abitanti. In Iraq significa dai 50 ai 100.000 soldati, per un certo numero di anni. Chi pagherà?

La comprensibile tentazione sarà di metter tutto in conto al petrolio iracheno. Ce n'è tantissimo, un potenziale di 5 milioni di barili al giorno. Anche lasciando da i problemi internazionali (l'inevitabile calo del prezzo piacerà ai Paesi Opec e alla Russia?), il rischio è che a quel punto gli iracheni si sentano più vinti che liberati. Soprattutto se il governatore Franks cercherà di fare quanto molti, più volenterosi che saggi, oggi consigliano: epurare i militanti del partito Baat', che sono milioni.

Il problema delle minoranze

Una storia del genere si è vista nella Russia negli anni '90, quando si tentò la cistka (purga) degli iscritti al Pcus, per scoprire che erano 25 milioni e che, via loro, il Paese si sarebbe fermato. In Iraq i baatisti impegnati nella sola distribuzione delle razioni alimentari erano 100.000. Vogliamo buttarli in mezzo a una strada e farci nemica per sempre la minoranza (sempre il 20-21 per cento della popolazione) sunnita dell'Iraq?

A proposito di minoranze...Gli sciiti (60 per cento) non hanno molta ragione di amare gli Usa, visto che il loro paese di riferimento spirituale (Iran) è per Bush uno "Stato canaglia" e quello in cui vivono (Iraq) è appena stato occupato.

I curdi, prima sterminati da Saddam e poi così dediti alla guerra civile nel "loro" Kurdistan, vogliono il petrolio di Mosul e Kirkut. Il generale Franks potrebbe scoprire quant'è più facile muovere carri armati nel deserto.


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